COS’ERA ESATTAMENTE IL BELLO DELLE DONNE?
La scritta al neon che segnala «Il bello delle donne» è pronta a riaccendersi su Canale 5 — ne abbiamo parlato a lungo (qui tutto sulla nuova trama e sugli interpreti) — ma cosa ha significato davvero quando la serie sul salone di bellezza per signore andava in onda sedici, quindici, tredici anni fa? Molti, com’è legittimo se non sacrosanto, possono non saperlo (per indifferenza, distrazione o anagrafe).
Il bello delle donne era l’appuntamento settimanale irrinunciabile della linea muliebre (nonna, madre e figlia) della famiglia italiana che poi veniva coinvolta tutta, compreso quel pubblico omosessuale che vide, spesso per la prima volta, trattati temi che lo toccavano da vicino. Con la sua romantica sigla d’apertura tutta pianoforte e violino (autore Antonio Sechi) alla quale s’aggiunse, nella terza stagione, quella di chiusura cantata da Ornella Vanoni con Nancy Brilli (Noi le donne noi), ogni puntata era un momento di svago e insieme una sfida: l’emancipazione, la fine di un amore, il sesso fine a se stesso, l’incolmabile solitudine, l’omosessualità repressa, la prole illegittima, la morte, la ribellione, l’invidia, la violenza, la corruzione, l’aborto, il pettegolezzo, la cattiveria.
In partenza, fu la risposta Mediaset a Commesse, la fiction cult di Raiuno con Sabrina Ferilli, Veronica Pivetti, Nancy Brilli e Anna Valle (le prime due, non a caso, furono contattate per entrare a far parte della “serie del salone” rinunciarono perché affezionate a “quella della botique”). Non era impresa da poco trovare attrici popolari come le appena citate, e soprattutto trovare strumenti nuovi ma ugualmente efficaci per raccontare l’universo femminile, per ritagliarsi uno spazio nel piccolo schermo di allora e nell’immaginario collettivo, ma Il bello delle donne ci riuscì, registrò ascolti ottimi (calati molto con l’ultima stagione) e finì dritta negli annali.
Aldo Grasso, critico che poi non perdonerà più nulla a Teodosio Losito (“penna” dietro Il bello), accolse con favore la serie Mediaset di cui sottolineò subito – nella sua Garzantina della Televisione – la «coralità sognatrice» e l’interpretazione di Stefania Sandrelli: «di alto livello, tanto che la sua presenza scenica genera spontaneamente un ordine gerarchico imposto al clan della altre figure femminili». Certo, l’attrice che ha vinto 3 David di Donatello, 6 Nastri d’Argento e un Leone alla Carriera, connotò molto Il bello delle donne con la sua tenera e indistruttibile Anna Borsi, ma le colleghe che l’affiancarono non furono assolutamente da meno. Del resto c’erano Virna Lisi (maestosa e fragile Contessa Spadoni), Giuliana De Sio (la bastardissima ma irresistibile Annalisa Bottelli), Lunetta Savino (nei panni di Agnese, una casalinga all’antica pronta a una personale rivoluzione); impossibile gerarchizzare le loro prestazioni. E c’erano le attrici di Commesse Nancy Brilli (e la sua frizzante e infelice Vicky Melzi) e Caterina Vertova (cioè Olga, una passionale lesbica benché algida altolocata), e poi Antonella Ponziani, Eva Grimaldi, Loredana Cannata, ma anche Maria Grazia Cucinotta, Eva Robin’s (eh sì) e addirittura Anita Ekberg nella sua ultima apparizione in televisione. Si citi, fra gli uomini, almeno Massimo Bellinzoni che impersonò un parrucchiere gay con mirabile misura.
Maurizio Costanzo, all’epoca a capo di Mediatrade, presentò Il bello delle donne come «un’indicazione didattica per gli uomini» perché «Il bello delle donne è la loro grande capacità di risolvere i problemi, una cosa che gli uomini sembrano non aver ancora capito». Il giornalista di lungo corso rivendicò sulle pagine de La Repubblica:
«Noi trattiamo la realtà con realismo, perché esistono le famiglie allargate, le donne sole, i gay… abbiamo puntato sulla trasgressione, sui racconti meno legalitari. L’Italia è cambiata: si prende posizione quando si fanno le cose, senza vergognasi di niente».
Per le interpretazioni e soprattutto per i temi trattati, de Il bello delle donne si parlò parecchio, basti immaginare — su diversi livelli — i giorni in casa dopo la messa in onda di una puntata (la nonna scandalizzata, la madre compiaciuta, la figlia “ispirata”) o, più seriamente, cercare negli archivi online di quotidiani come La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Stampa.
A volte si volò troppo in alto con arditi paragoni (fu scomodato Donne, film del 1939 di John Cukor) o furono azzardate definizioni altisonanti (del tipo “Via col vento tutto al femminile”), altre volte invece ci si fermò nei seminterrati della superficialità e non è difficile risentire nell’orecchio la voce di qualcuno che definì la fiction un florilegio d’isteria uterina o semplicemente una “frociata”. Ed è vero che più volte, col passare del tempo (soprattutto nell’ultima stagione), l’eccesso smise d’essere la trovata eccezionale ed efficace ma divenne costitutivo di un linguaggio a tratti grottesco, se non trash, che probabilmente stancò (e che comunque trovò spazio per manifestarsi, da lì a poco, nelle nuove produzioni Ares).
Se, però, forse mai si è capito cosa fosse esattamente Il bello delle donne, a pochi sfuggì che si trattava di un prodotto innovativo in grado di entrare nelle case degli italiani con i passi abbastanza calibrati di una coreografia coraggiosa ed elegante, comunque un prodotto d’intrattenimento leggero con qualche ambizione e delle criticità. Né più né meno. Per questo non può che incuriosire il suo ritorno su Canale 5 il 13 gennaio… alcuni anni dopo. Incrociando le dita, fresche di manicure s’intende.